giovedì 28 marzo 2013

La grande notizia - Relazione di Marco (tratta dall'omonimo libro di Francesco Lo Bue, ed. Claudiana)





E lì per lì di buon’ora allestirono un Concilio - i Prelati assieme ai decani e ai Teologi, e l’intiero Concistoro; e dopo avere ammanettato Giosuè, lo portarono via e lo consegnarono al Governatore d’Occupazione.

E l’interrogò il Governatore d’Occupazione: «Sei tu il“Re della Nazione”?».
E lui di rimando: «Sei tu che lo dici?», gli fa. E i Prelati lo denunciavano a gran forza. E daccapo il Governatore lo interrogava così: «E non rispondi niente? Guarda un po’ di che roba t’accusano!». Ma Giosuè non rispondeva più niente, tanto che si stupiva il Governatore.

Ma in occasione della festa lui gli metteva in libertà un detenuto: quello di cui loro gli facevano richiesta. E c’era quello detto “Figlio d’Iddio”, che stava incarcerato assieme ai ribelli: quei tali che nella rivolta avevano fatto un omicidio.

E la folla venne su e si mise a chiedere, come lui appunto gli faceva sempre. E il Governatore rispose loro così: «Volete che vi metta in libertà il “Re della Nazione”?». Conosceva difatti ch’era per odio che gliel’avevano consegnato i Prelati. Ma i Prelati aizzarono la folla, che semmai gli mettesse in libertà il “Figlio d’iddio”.
E il Governatore daccapo: «E che ne farò allora», gli faceva di rimando, «di quello che dite il “Re della Nazione”?». E loro daccapo a urlare: «Al patibolo!». «Che male ha dunque fatto?», gli faceva il Governatore. E loro a urlare a dismisura: «Al patibolo!».

E il Governatore, intendendo fare a modo della folla, gli mise in libertà il “Figlio d’iddio”; e Giosuè lo consegnò - dopo averlo staffilato perché fosse messo al patibolo.

E i soldati se lo portarono via dentro al «Palazzo» - cioè al Comando - e fanno l’adunata del reparto intiero. E gli mettono addosso una mantellina e gli applicano una ghirlanda - che avevano intrecciata - di spine. E si misero a fargli il saluto: «Salute, “Re della Nazione”!». E gli picchiavano la testa con una canna, e gli sputavano addosso, e piegando il ginocchio gli facevano riverenza. E quando l’ebbero sbeffeggiato, gli levarono di dosso la mantellina e gli misero addosso i suoi vestiti. Poi lo portarono fuori per metterlo al patibolo.

E precettano un tale che passava - Simone di Cirene che se ne veniva di campagna: il padre di Alessandro e di Rufo per reggergli il patibolo di lui. E lo portarono in località Golgothà, che tradotto sarebbe: località del Teschio. E gli davano vino drogato, che lui però non ne prese.
E lo mettono al patibolo e si spartiscono i vestiti (di lui), tirandoseli a sorte, cos’avessero a prendersi, e chi. Ed erano le nove, e lo tirano sul patibolo.
E la dicitura della sua motivazione era segnata:
II «RE DELLA NAZIONE».

E con lui mettono al patibolo due briganti, uno a destra e uno a manca di lui. E si attuò quella Scrittura Sacra che dice:

fino tra i fuorilegge è stato calcolato.

E quelli che transitavano gli imprecavano scuotendo la testa e dicendo: «Beh! tu che demolisci il santuario e in tre giorni lo costruisci, salvati la tua pelle venendotene giù dal patibolo!». Alla stessa maniera pure i Prelati, sbeffeggiando gli uni con gli altri, dicevano assieme ai Teologi: «Altri, li hai salvati; se stesso, non riesce a salvarsi! Il “Prescelto”, “Re del Popolo”, se ne venga giù adesso dal patibolo, che noi si veda e si creda!». Fin quelli ch’erano stati messi al patibolo con lui l’insultavano.

E come si fece mezzogiorno, per l’intiero paese si fece buio fino alle tre. E alle tre gridò - Giosuè - a gran voce: «Elohì, Elohì! lamàh sc’baqtanì» (che tradotto, sarebbe: «Dio mio, Dio mio! a che m’hai abbandonato!»). E certuni dei circostanti, a sentirlo, dicevano: «Toh! chiama “Elia”!».

E, di corsa, uno inzuppò d’aceto una spugna e l’applicò a una canna e gli dava da bere, dicendo: «Lasciate! Vediamo se viene Elia a tirarlo giù!». Ma Giosuè diede una gran voce e spirò.

E il tabernacolo del Santissimo si spaccò in due, da cima a fondo. E come vide - il comandante del plotone che stava dirimpetto a lui - che lui era spirato a quel modo: «Davvero», fece, «che quest’uomo era un figlio d’Iddio !». E c’erano pure delle donne a osservare da lontano, tra le quali pure la Maria di Torre, e la Maria madre di Giacomo il Piccolo e di Giuseppe, e Salomè, che, quand’ era nella Periferia, lo seguitavano e gli accudivano; e parecchie altre ch’erano salite con lui alla Capitale.

giovedì 14 marzo 2013

Un Dio che mi fa leggero



Steve McCurry - Power of play


Per un Iddio che rida come un bimbo,
Tanti gridi di passeri,
Tante danze nei rami,

Un'anima si fa senza più peso,
I prati hanno una tale tenerezza,
Tale pudore negli occhi rivive,

Le mani come foglie
S'incantano nell'aria...

Chi teme più, chi giudica?
(G. Ungaretti - Senza più peso, da Il sentimento del tempo)

Il Regno di Dio è una tavola imbandita, una festa, un'assemblea di persone che sono state liberate per la libertà (propria e degli altri), uno spazio di gioco. Non c'è paradiso senza gioia, senza movimento, senza trasformazione di questo mondo che, invece di volgere alla sua fine, volge verso il suo rinnovamento. Non c'è paradiso senza l'Iddio che rida come un bimbo e non c'è paradiso senza la leggerezza. Forse "insostenibile è la leggerezza dell'essere" perchè insostenibile è il peso di essere liberati dal Dio della libertà. Il giudizio, parafrasando il Vangelo secondo Giovanni, è questo: Cristo ha portato la leggerezza e gli uomini hanno preferito rimanere pesanti. Grande paradosso: gli uomini vogliono il cielo e amano il loro peso. La gravità dell'egoismo, dell'essere incurvatus in se, altro non è che la gravità stessa contro cui l'uomo fatica nel suo elevarsi disperato al cielo. Eppure, esiste una gravità opposta, dunque levità; quella di Dio: essa non chiede all'uomo di salire, ma porta Dio a scendere: il Nuovo mondo viene incontro a questo mondo. Quella stessa gravità di Dio, che è leggerezza, chiede all'uomo di rimane sulla terra, non di salire al cielo, e chiede all'uomo di rimane qui come uomo-leggero, come figlio del tempo, come figlio del Dio della leggerezza.

Le mani come foglie, non più la mano del predicatore o del prete che ti giudica da un pulpito o da un altare, non più le mani che al contempo ti salutano e si fanno giudizio su di te, non più lo schiaffo, il pugno, il palmo chiuso. La leggerezza di Dio ti fa mano aperta, sottile, delicata e vibrante nel soffio del Vento, quel Vento che altro non è che lo Spirito di Dio stesso, definito in modo splendidamente teologico e poetico da Paolo di Tarso, come lo Spirito di Libertà. Le mani come foglie, cioè delle vite nel tempo, che con i loro colori rendono bello l'autunno del mondo, con la loro assenza e il loro silenzio nell'inverno testimoniano l'attesa del mondo della nuova stagione, con il loro verde estivo, schermano il viandante stanco dalla calura del mondo, con il loro germogliare primaverile rimandano ai germogli di speranza che Dio già ora semina in questa terra.

Il sorriso del Dio che è Creatore: la sua vitalità nelle danze nei rami, il suo esultare in quella che G.M. Hopkins definisce "pied beauty" (cioè, bellezza variegata o pezzata), il suo essere rappresentabile non come un vecchio severo ma con l'intensa ripetitività dei bambini i quali "dicono ogni volta: - Fallo ancora - , e l'adulto ripete fino allo sfinimento. [...] Può darsi infatti che Dio ogni mattina dica - Fallo ancora - al Sole e ogni sera dica - Fallo ancora - alla Luna. Forse non è un 'automatica necessità a rendere le margherite tutte uguali, forse Dio crea ogni margherita separatamente, ma non si stanca mai di farlo. Probabilmente possiede in eterno lo stesso entusiasmo dell'infanzia; noi siamo invecchiati perchè abbiamo peccato e nostro Padre è più giovane di noi" (G. K. Chesterton - Ortodossia)

Ecco in fondo cosa vorrei, che il messaggio della mia vita fosse questo: credo in un Dio che mi fa leggero. 




lunedì 11 marzo 2013

Teologia in Vasto spazio - J. Moltmann in dialogo con Agostino e la vita



Che cosa amo quando amo Dio? 



Una sera lessi nelle Confessioni di Agostino, libro X, 6, 8: 


«Ma cosa amo quando amo te? Non la bellezza di un corpo, né le attrazioni della vita, né lo splendore della luce, amica di questi miei occhi, non le dolci melodie di un’infinita varietà di canti, né l’odore soave di fiori, unguenti e aromi; non la manna e il miele, né le membra gradevoli agli amplessi della carne: non è questo che amo quando amo il mio Dio. Esiste però una certa luce e una certa voce, un certo profumo e un certo cibo e un certo amplesso che amo quando amo il mio Dio: la luce, la voce, il profumo, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove la mia anima è inondata dalla luce che lo spazio non contiene, dove c’è una musica che il tempo non afferra, dove c’è un profumo che il vento non disperde, dove c’è un sapore che la voracità non estingue, dove c’è un’unione che la sazietà non allenta. Questo io amo quando amo il mio Dio». 




E quella notte gli risposi: 



Quando amo Dio amo la bellezza dei corpi, il ritmo dei movimenti, lo splendore degli occhi, gli abbracci, i sentimenti, i profumi, i toni di questa colorata creazione. Tutto vorrei abbracciare, quando amo te, mio Dio, perché ti amo con tutti i miei sensi nelle creature del tuo amore. Tu mi attendi in tutte le cose che io incontro. 
 A lungo ti ho cercato dentro di me, mi sono nascosto nel guscio della mia anima e mi sono difeso con la corazza dell’inavvicinabilità; ma tu eri fuori di me e mi hai attratto dalla ristrettezza del mio cuore nel vasto spazio dell’amore per la vita. Così sono uscito da me stesso, ho trovato la mia anima nei miei sensi e ho scoperto quel che più mi appartiene negli altri. 


 L’esperienza di Dio approfondisce le esperienze della vita e non le riduce, perché risveglia la forza di dire incondizionatamente sì alla vita. Più amo Dio, più sono felice di esistere; più esisto pienamente e direttamente, più percepisco il Dio vivente, la fonte inesauribile della vita e la vitalità eterna.

(J. Moltmann - Vasto spazio, pagg. 422-423, ed. Queriniana)


giovedì 7 marzo 2013

Pensare Dio (secondo Dio)



Nel celebre e controverso episodio della confessione di Pietro, riportato nel capitolo 16 del Vangelo secondo Matteo, la parola di Gesù, al rimbrotto di Pietro, è aspra.
"Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: «Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini."
Pietro immaginava un Messia dominatore. Dio immagina sè stesso nell'abbassamento e nel dare la vita di Suo Figlio per l'uomo.
Molta della teologia moderna vive la stessa problematica. Categorizza Dio secondo modi di pensare aristotelici e secondo una "teologia della gloria" estranea al racconto dei Vangeli. Proiezioni freudiane? Forse. Ed allora la critica di Feuerbach al Dio prodotto dal desiderio umano, diventa un correttivo e un rimprovero utile. Infatti, Dio salva prima di tutto in forza della sua debolezza e pazzia (cfr. 1 Corinzi 1,25), le quali si dimostrano più sagge del sapere e della forza umana. Dio è un Dio che si rivela e fornisce all'uomo una pista di pensiero aperta, la quale si completa soltanto in un cammino relazionale. L'uomo, al contrario, pensa a un Dio che ha più le caratteristiche di un super-eroe, dove le doti umane vengono elevate all'ennesima potenza. 

Una teologia che vuole essere coerente con quanto racconta il Nuovo Testamento, dovrebbe reintrodurre nella sua visione sistematica concetti come "kenosis" (cioè, abbassamento), dolore del Dio Trinitario e soprattutto le categorie di relazionalità che molta scolastica cattolica e protestante hanno escluso. 
Cosa va detto oggi all'uomo moderno? Dovremo parlare dell'onnipotenza di Dio nonostante Auschwitz, nonostante i massacri in Africa, nonostante i problemi ecologici, gli sconvolgimenti climatici e quant'altro ci testimonia un qualsiasi quotidiano? Dovremmo continuare a fare la nostra difesa di Dio, seguendo le nostre categorie di pensiero e cercando di "discolpare Dio"? Non credo. 
Il mondo non ha bisogno di un Dio dalle mani pulite, senza macchia e perfetto da un punto di vista logico e metafisico. 
Il mondo chiede esattamente il Dio che si rivela in Cristo: un Dio che si abbassa, che soffre, che lascia all'uomo la libertà della sua scelta, ma che al contempo continua a essere a fianco dell'uomo, per l'uomo e con l'uomo. "Il dolore di Dio deve essere testimoniato" (Kazoh Kitamori - Teologia del dolore di Dio, ed. Queriniana). 

Molto potrebbe cambiare se, invece di fare le veci di Pietro, cominciassimo a sentire di nuovo quella parola dura di Gesù rivolta all'apostolo, e cominciassimo a pensare Dio "secondo Dio"; ovvero, attraverso la vita di Cristo, che rimane, l'unica interpretazione corretta di Dio stesso. 

"Nessuno ha mai visto Dio, L'unigenito che è nel seno del Padre è quello che l'ha fatto conoscere". (Vangelo secondo Giovanni 1,18)

martedì 5 marzo 2013

L'umanità di Dio - Tra biografia e arte della ritrattazione teologica



I

Fu Thurneysen che a quattr’occhi e a mezza voce mi sussurrò la frase chiave: - per la predicazione, l’istruzione e la cura pastorale ci occorre una fondazione teologica totalmente diversa”- .1
La svolta auspicata dall’amico fraterno, giunse. In modo subitaneo nella volontà e nell’impegno2, ma realizzata, nella pratica, nel corso di qualche anno. Il nuovo “ABC teologico” fu appreso in una rilettura esegetica serrata dell’Antico e del Nuovo Testamento; l’enzima che fece da catalizzatore fu il libro che per eccellenza nella storia della Chiesa, aveva rappresentato la guida verso il rinnovamento: la parola antica e tremendamente attuale dell’epistola ai Romani.
La svolta fu un distacco, una vera e propria inversione di rotta, rispetto alla teologia allora definita “moderna” e dominante. La teologia liberale, alla cui fonte Barth aveva abbondantemente attinto negli anni della sua formazione accademica, aveva conosciuto un termine d’arresto: accodandosi alla presunta processione trionfale, e poi catastrofica, della politica bellicista dell’Impero tedesco, essa aveva dimostrato la sua accettazione non-critica dello spirito del tempo. Colei che si proclamava scientifica era divenuta serva della cultura e dello spirito politico a lei contemporanei. Il giovane Barth vede in tutto ciò il fallimento del progetto teologico liberale. Doveva essere ricompreso quale fosse e in cosa consistesse il vero centro della teologia. “L’essenza del Cristianesimo”, per usare un espressione harnackiana, risuona nella sentenza fulminante “Dio è in cielo e tu sulla terra.” Novello Kierkegaard, schierato contro il Sistema, Barth trova nella totale alterità di Dio, nella Sua assoluta libertà e nell’azione dello Spirito di Dio, vero fautore della contemporaneità tra parola e uomo che ascolta, il centro da cui ricominciare il discorso teologico (volendo portare avanti il paragone kierkegaardiano, un discorso che non avviene per sintesi, ma nella dialettica). Non solo. In tutto ciò, infatti, egli trova la critica al socialismo (Paolo è ancora più radicale, ancora più rivoluzionario) e la critica alla religione (intesa come sforzo, o esperienza umana, che cerca di innalzarsi verso Dio e in cui l’uomo ricade su se stesso).
La presenza di Dio, infatti, è altresì quella di un partner libero dell’uomo in una storia messa in moto da Lui stesso e in un dialogo aperto e controllato dalla sua iniziativa”.3
La diastasi, l’infinita differenza qualitativa, il totaliter alter, la metafora del punto matematico e della tangente nella quale essi si sfiorano soltanto, sono tutte espressioni che in modo significativo il teologo svizzero elabora e propone con grande forza evocativa al fine di comunicare sia la violenza del distacco rispetto al suo passato prossimo, sia la grande novità teologica, con le sue implicazioni.
Questa svolta fu il passaggio affascinante (una sorta di contemplazione del Behemot e del Leviathan) e necessario per determinare che “proprio la divinità di Dio, ben compresa, include la sua umanità”.4

II


Un trasloco, “sulla collina a ovest di Basilea […] in una casa sostanzialmente più piccola, e perciò più moderna e accogliente, dalla quale non ci possono scacciare perché è di mia proprietà”.5 E dentro quella casa, una stanzetta che funge da comodo studio. Una scrivania, sulla quale pende una copia della Crocifissione di Matthias Grunenwald. Infine libri, fino al soffitto e, ovviamente, l’immancabile letteratura mozartiana.
Questa scena, a prima vista domestica e retrò, si presta ad essere una metafora interessante del cambiamento avvenuto nel paradigma della teologia barthiana. Il teologo, per sua stessa ammissione, visse il trasloco di cui si accennava prima, come un profetico passaggio dal vecchio al nuovo cosmo6 e, similmente accadde che molti iniziarono a vivere il “vecchio” e ormai settantenne Barth, come un “nuovo Barth”.
In realtà il “principio cristologico” della conferenza del 25 Settembre 1956, non era nulla di nuovo rispetto a quanto detto nella Dogmatica; era piuttosto una sorta di sintesi di quanto maturato dal teologo stesso nel corso della sua esistenza come uomo di fede e come teologo:
E’ però vero che io nel frattempo ho imparato qualcosa. Si spera che sia così! Non è forse vero che si rimane giovani, pur invecchiando, se si continua e non ci si stanca di imparare (in questo caso: studiare teologia!). […] Dopo di allora penso di aver imparato a parlare meglio di Dio Creatore in modo che l’uomo, in quanto sua creatura, non venga oscurato ma messo in luce nel rapporto che a lui lo lega. Oggi penso di potermi esprimere meglio sul fatto che, proprio in virtù della potenza della libera e della sovrana grazia di Dio, esiste anche un’autentica libertà dei figli di Dio. Oggi, penso di comprendere e di poter onorare meglio di quanto mi fosse concesso allora, la saggia sapienza di Dio, ma anche l’opera accogliente e rinnovante della sua parola e del suo spirito nell’uomo e nell’umanità.7
Nella seconda parte della conferenza si ha l’enunciazione del nucleo teologico soggiacente la “seconda svolta”. In essa avviene il superamento del totaliter alter assolutizzato, il cuore della diastasi tra Dio e uomo, necessaria a Barth per ricatturare una visione esegetico-teologica della materia biblica, in opposizione alla visione critico-scientifica della teologia liberale. E’ il modello Cristologico calcedonese delle due nature unite in una persona che consente a Barth di mantenere sempre una separazione tra Dio e uomo (mantenendo così inalterato il tema della “prima svolta” ed escludendo sia l’approccio della teologia negativa sia quello della sintesi) ma, al contempo, di far risaltare un’opera di mediazione tra Dio e l’uomo che egli stesso esprime in questo modo affascinante:
Il fatto che Egli parli, dia, comandi, viene nell’esistenza di Gesù Cristo, assolutamente prima; che l’uomo oda, riceva, ubbidisca, ciò può solamente conseguire a quel primum. La libertà dell’uomo è, in Gesù Cristo, totalmente inclusa nella libertà di Dio. Senza abbassamento di Dio non si verrebbe ad alcun innalzamento dell’uomo. In quanto Figlio di Dio, e non altrimenti, Gesù Cristo è anche figlio dell’uomo.”8
Se volessimo tornare alla metafora iniziale dello studio del teologo svizzero, dovremmo aggiungere un particolare che descrive ulteriormente l’atmosfera teologica del sempre giovane settantenne:
Ci sono certamente poche stanze da studio di teologi, nelle quali i ritratti di Calvino e di Mozart si possano vedere accostati alla stessa altezza”9. Il rigore della tradizione riformata e la giocosità profana del classicismo musicale, come simboli di un annuncio di fede fatto al mondo e alla Chiesa: “Dio è umano”.

III

8 gennaio 1957, Hannover. Barth tiene una conferenza all’interno di una serie più ampia di conferenze promosse dalla Società goethiana sulla Teologia Evangelica nel XIX secolo. Invece di criticare violentemente il passato, egli non oppone un deciso no a quella stagione teologica. Fermo restando che la sua intenzione era quella di non farsi condizionare dallo spirito del secolo, e quindi quella di continuare a porre domande e quesiti, ora Barth poteva anche valutare positivamente le istanze, la “particula veri” di quella teologia. Ciò non per sentimentalismo, ma perché egli non desiderava più considerare la teologia come pura e semplice dottrina di Dio, quanto piuttosto vederla come una teantropologia, cioè la dottrina del rapporto e della profonda comunione tra Dio e la sua creatura.10
Già in questa conferenza, che precede di pochi mesi quella di Hannover, si enunciano in modo ampio alcune conseguenze gravide di significato per quanto ulteriormente apparirà nella Dogmatica.

In particolare:

  1. La dignità di ciascun essere umano: “Noi dobbiamo considerare e trattare ciascun essere umano, anche il più diverso da noi, anche il più abietto o il più misero, sulla base del seguente presupposto: a motivo dell’eterna volontà di Dio, Gesù Cristo è anche suo fratello. Dio stesso è anche suo padre.11L’uomo, inoltre, risulta essere l’eletto al rapporto con Dio e, come tale, pur nei suoi limiti, dotato di una sua specificità e di sue capacità. La cultura umana, che è il tipico operare umano (tentativo dell’uomo di essere uomo), benché spesso connotata di risvolti che fanno risaltare il carattere non buono o addirittura mostruoso della creatura, può diventare, con l’assenso di Dio, una efficace parabola della volontà divina stessa.
  2. Il traffico (incessante) tra Dio e l’uomo come parola della teologia: nella scelta da parte di Dio di “tagliare un’alleanza” con l’uomo, l’uomo stesso si trova a essere incluso in una relazione in cui Dio è partner libero e vuole essere per e con l’uomo. La teologia deve mostrare che dogmatica, etica, predicazione, istruzione e cura d’anime consistono, senza deviare, ma proseguendo in linea retta, nella esplicitazione del rapporto di Dio con l’uomo, nel quale poi è incluso il rapporto dell’uomo con Dio.
  3. Il linguaggio della teologia: in conformità al suo oggetto, la teologia è dialogo. Teologia come preghiera nel dialogo con Dio. Teologia come annuncio (kerygma) riguardante l’uomo (ogni uomo!) in modo tale da suscitare in lui un passaggio significativo da semplice interessato a inte-ressato. Un linguaggio che non sia preoccupato delle categorie del “colui che sta fuori” e “colui che sta dentro”. Un linguaggio invece che sia veicolo della novità (Dio è umano, appunto) che è vera sia per chi riceve l’annuncio sia per chi annuncia.
  4. Un tono fondamentalmente positivo: secondo l’osservazione dell’Iwand, amico stretto di Barth, i due cerchi della rivelazione speciale e della rivelazione generale, non solo condividono lo stesso centro, ma anche lo stesso raggio. Fuor di metafora, Barth comprendere l’umanità di Dio come una proclamazione positiva che, pur non rinunciando a parlare della condizione dell’uomo nella sua trasgressione (Il “no” di Dio all’uomo), afferma con ancora più forza che l’uomo è l’essere che Dio ha amato, ama e amerà.12La quarta conseguenza tocca il discorso delicato della apocatastasis panton, su cui Barth lascia aperta la dimensione del paradosso e della non disponibilità di risposte certe da parte dell’uomo. Solo una cosa appare certa: non è dato alcun diritto teologico di porre, da parte nostra, qualsivoglia limite alla benignità di Dio verso gli uomini, che si è manifestata in Gesù Cristo.13
  5. La Chiesa come evento e luogo della presenza di Dio: la Chiesa, considerata da Barth inizialmente in maniera critica (“umana, troppo umana”, bissando così le parole di Nietzsche), ritorna ad essere vista, alla luce dell’umanità di Dio, come corpo, come uno strumento funzionale alla salvezza, come luogo dove risuona la parola della predicazione e dell’annuncio della “novità” del Dio che è umano. Essa è destinata e chiamata a portare nel mondo quella “poca conoscenza” che ha della grazia di Dio rivelata in Gesù Cristo; tale conoscenza, essendo legata allo Spirito Santo, risulta invincibile. Essa è il luogo dove l’umanità è vissuta nella co-umanità. Essa è il luogo dove Dio vuole abitare e dimorare; infatti “qui si riconosce l’umanità di Dio, si gioisce di essa, la si celebra e le si dà testimonianza.”14 La chiesa dunque testimonia di un fatto che non può contenere in sé (la chiamata di Dio è rivolta a ogni essere umano); al contempo, essa è il luogo dove l’umanità di Dio vuole assumere, già nel tempo e qui sulla terra, una forma tangibile. 15

Come la parola della Chiesa non è altro che la parola che Dio le ha rivolto, e questa parola è Cristo stesso, così anche il teologo termina con una parola, anzi l’ultima parola:

L’ultima parola che io come teologo ho da dire, non è un concetto come grazia, ma un nome: Gesù Cristo. Egli è la grazia, ed egli è l’ultimum, al di là del mondo e della chiesa e anche della teologia…16

Bibliografia
Karl Barth, Biografia – Eberhard Busch, Queriniana
L’umanità di Dio, L’attualità del messaggio Cristiano – Karl Barth, Claudiana
La teologia del Novecento – Fulvio Ferrario, Carrocci Ed.





1 Karl Barth, Nachwort, 295; citato in E. Busch, Karl Barth – Biografia, Queriniana.
2 “Subita conversione” l’espressione scelta da Barth e riecheggiante l’espressione di Giovanni Calvino con la quale egli definì la sua adesione alla Riforma.
3 Karl Barth, L’umanità di Dio, pag. 18, Claudiana.
4 Id., pag. 23.
5 Lettera a Paul Van Buren, 18 novembre 1955.
6 Lettera ai figli del 10 Ottobre 1955.
7 Discorso a Lambeth Palace del Luglio 1956.
8 L’umanità di Dio, pag. 25.
9 TA VIII, 209, Karl Barth.
10 Karl Barth, La teologia protestante nel XIX secolo, Jaca Book.
11 Karl Barth, L’umanità di Dio, pag. 29, Claudiana.
12 Id. pag. 34.
13 Id. pag. 36.
14 Id. pag. 38.
15 Id. pag. 38.
16 Letzte Zeugnisse , 30   

Prolegomena, ovvero l'arte di iniziare dall'inizio

Una mansarda, molti libri di teologia (eppure, mai troppi!) , un giradischi che ora riproduce musica di Bach ora di John Coltrane, alcune vecchie foto, una macchina da scrivere...

...un luogo adatto per riflettere e scrivere, con una precisazione: è la vita che entra in questo luogo per interrogare il pensiero; non è però questo luogo che diviene una sorta di torre d'avorio da cui osservare tutto con apatico e razionale distacco.

Un luogo da cui pensare tenendo in vista la comunità degli uomini e delle donne: dal sottotetto le carte sparse, ogni tanto, si materializzano sullo schermo di un computer, per essere condivise, lette, criticate, considerate e quant'altro le parole possano suscitare.

Con chi tutto ciò? Con chiunque le voglia leggere e a sua volta iniziare un dialogo.

In che spirito? Quello che Karl Barth espresse a nome di tutti quelli che, addetti ai mestieri e non, fanno della teologia non solo una passione speculativa, ma un modo di vivere, di leggere la realtà, di sentire e agire. Un discorso in fondo che mette al centro non l'uomo, ma Dio, con tutti i limiti nostri e con un Dio comprensibile e al contempo sfuggente, non gestibile.

"Come teologi dobbiamo parlare di Dio, ma noi siamo uomini, e come tali non possiamo parlare di Dio. Dobbiamo essere coscienti di entrambe le condizioni, del nostro dovere e del nostro non potere, e proprio per questo rendere onore a Dio". 
(Karl Barth, La parola di Dio come compito della teologia, in  Le origini della teologia Dialettica, pag. 238, ed. Queriniana).


Teologia come dialogo e biografia, nell'incompletezza e nella parzialità del vedere umano, e per questo dunque, un riflettere autentico, in divenire: nello stupore e nella meraviglia, cantando, ringraziando.

Se queste pagine serviranno in qualche modo a chi legge, così come servono a chi scrive,
il compito di questo blog sarà adempiuto oltre ogni aspettativa.

Jonathan S. Benatti