martedì 14 maggio 2013

Guardare attraverso l'orizzonte



Sermone – Domenica di Exaudi, 12 Maggio, 2003

Guardare attraverso l'orizzonte

Giovanni 14, 1-19

Il vostro cuore non sia turbato, abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me[...]
Se voi mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paracleto perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete.

Il credente è un viandante spirituale che cammina nel mondo presente verso il mondo futuro e nuovo di Dio; tutta la sua vita nei suoi vari aspetti è in tensione costante verso questa direzione, mosso non dalla ricerca di una buona e tranquillante sistemazione per sè [...] non da un proprio interesse per una salvezza ultraterrena, che non sarebbe altro che una riproduzione metafisica dell'amore verso sè stesso, ma dalla ricerca e dall'amore del Dio che l'evangelo gli ha rivelato. (V. Subilia - Solus Christus)

Cari fratelli e sorelle,

la parola che abbiamo letto questa mattina e che ci accingiamo a commentare è inattuale e attuale al contempo.
E’ inattuale per la nostra mente moderna, perché siamo abituati a vedere i nostri propri problemi in un’ottica esclusivista e a trattarli come assolutamente nuovi e unici; inoltre, essa è inattuale perché sembra dotata di una certa tensione nel suo richiedere all’uomo, spaventato e preoccupato per la condizione in cui versa, di non avere paura.

Essa è anche una parola attuale, perché è indirizzata al centro dell’esistenza umana, un' esistenza che si gioca spesso tra le aspettative per un domani migliore, la sete di certezze e di conferme utili alla vita e al suo mantenimento, e, in più, tra la paura e l’ansia che colgono l’uomo quando affronta lo smarrimento o percepisce intorno a sé la precarietà delle cose e dell’esistenza.

Eppure proprio questa parola, giunge oggi a noi, così come giunse ai discepoli che la udirono.

In questa sezione del Vangelo di Giovanni, chiamata con un certo consenso dai commentatori “il Libro della gloria” (dove con ciò si sottolinea la glorificazione di Cristo nella sua morte sulla croce e nella sua risurrezione dai morti) siamo all’esordio dei vari discorsi di commiato che Gesù avrebbe pronunciato nella cerchia dei suoi discepoli (cap. 13-17) prima di affrontare la sua crocifissione.
Nella narrazione giovannea viene premessa, prima della sezione specifica dei discorsi, la narrazione di quanto accadde durante l’ultima cena: dopo il celebre episodio della lavanda dei piedi, il clima, già per altro non sereno, viene caricato ulteriormente dal peso di domande e pensieri angosciosi, dall’annuncio del tradimento di Giuda, dall’annuncio del prossimo rinnegamento di Pietro e, sopra ogni cosa, dalla premura con cui Gesù cerca di fare capire ai discepoli stessi la sua prossima dipartita: “Figlioli è per poco che sono ancora con voi” (cfr. Giov. 13, 33)

Proprio a termine di tali eventi ci viene detto, seguendo la narrazione evangelica, che Gesù esordisce con alcune parole di incoraggiamento:

Il vostro cuore non sia turbato, abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me (Giov. 14,1)

A fronte della sua imminente morte sulla croce, Gesù cerca di riportare i propri discepoli a una visione intinta nella speranza e nella fiducia, insistendo sul fatto che c’è una differenza sostanziale e decisiva tra la percezione che l’uomo ha delle cose e la percezione delle cose che Dio ha.

Il Vangelo di Giovanni ci presenta tali istanti come un momento, per i discepoli, di confusione, d’incomprensione, di smarrimento e di paura, fino al punto di diventare un momento di defezione, di abbandono, di perdita della speranza, quella stessa speranza “messianica” che sembrava aver mosso per qualche tempo gli animi di queste persone. Di fronte alla realtà dei fatti, alla durezza di quanto, di lì a poco, sarebbe accaduto, la parola di Gesù è tanto paradossale per i discepoli quanto lo è oggi per noi, che viviamo un’uguale perdita di speranza, di certezza; per noi che sperimentiamo il senso di solitudine o di abbandono; per noi che avevamo riposto fiducia in questo o quel movimento politico affinché risolvesse o quanto meno tamponasse i problemi del nostro paese; per noi che vorremmo vedere una chiesa non solo fedele a una vocazione di povertà o di semplicità o una chiesa sempre tendente al passato (le origini e i gloriosi ritorni) e priva di presente, ma soprattutto una chiesa che sappia annunciare all’uomo moderno quella Parola che la mantiene in vita ed è vita anche per il mondo e che sappia vivere di quella Parola e in quella Parola, con grazia e aderenza.

In una situazione di smarrimento personale e collettivo, risuona appunto questa sentenza: abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me.

Perché paradossale? Perché chi può trovare in sé stesso questa fede così intensa da trascendere e vedere oltre i fatti stessi che non solo costellano la nostra vita, ma, a leggere un qualsiasi giornale, costellano la vita di tanti altri esseri umani, nostri contemporanei? Chi può, scoprirsi così visionario e così perseverante da continuare a credere e di conseguenza ad agire, contro le evidenze stesse della quotidianità, che si oppongono a un qualsiasi atto di ottimismo?

Gesù, in questo incipit del suo primo discorso di commiato, che prelude a un momento della Sua storia e della storia dei discepoli, che si sarebbe rivelata piena di dolore e di drammaticità, non chiede un vago ottimismo in un futuro migliore (“sorridi, domani è un altro giorno”) o un pensiero utopistico: semplicemente, fonda Egli stesso la possibilità della fede e dell'azione nel mondo, non in uno sforzo umano (o sovra-umano), bensì nel Suo darsi, Lui Figlio di Dio, come uomo e Dio agli uomini.

Abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me”: cioè, lì dove vi trovate, in questa condizione specifica, in questo momento della storia dove voi non siete in controllo, dove potenze più grandi sembrano scuotervi, dove persino Dio stesso sembra abbia dimenticato il mondo e i suoi abitanti, voi alzate lo sguardo da voi stessi, cercate non la soluzione del problema in un orizzonte prospettico limitato, che guarda all’immediato e al circostante, ma guardate all'orizzonte del Padre e al Mio orizzonte.

A proposito di prospettive, è interessante notare che linguisticamente parlando, la parola speranza, in indonesiano, si esprime con un termine che alla lettera significa: “guardare attraverso l’orizzonte”. Guardare attraverso l’orizzonte, significa appunto, avere fede/fiducia in Dio e imparare a sperare nella Sua azione.
I moderni critici di ogni approccio che coinvolge la fede potrebbero, in modo canzonatorio, dire: “la solita soluzione fideistica, che guarda a un mondo futuro, a qualcosa di utopico, a un sogno; insomma, la solita fuga dalla realtà”.
La Parola di Dio, Gesù Cristo stesso, oppone a questa visione, la realtà della sua presenza nel mondo e la realtà della presenza di Dio nel mondo.
Guadare attraverso l’orizzonte con Dio, significa comprendere perché l’invito a non aver paura è una possibilità concreta, vera, anche se certo non dimostrabile positivamente o scientificamente.

Qualche battuta più in là, nel nostro testo, Gesù spiega alcuni aspetti della Sua opera, dell’opera del Padre e dell’opera dello Spirito Santo, che altro non sono che l’esplicitazione del perché i discepoli possono prendere coraggio, possono vivere la speranza e possono guardare avanti per cogliere oltre l’orizzonte degli eventi, l’evento nuovo, la nuova creazione che inizia in Cristo e si protende verso il mondo futuro di Dio.

Gesù parla delle sue opere, le quali sono appunto segni, cioè indicatori che testimoniano di un Dio all’azione nella storia: certo non per sconvolgere o distruggere, per fare effetti speciali, ma piuttosto per annunciare e mettere in moto un processo inesorabile che coinvolge questo mondo e i suoi abitanti. Dalla profezia antica al momento del pronunciamento di queste parole di Gesù, dalla ascensione di Gesù al periodo della Sua attesa, così come anche testimoniato dal libro che conclude il Nuovo Testamento, la voce di Dio risuona nel suo annunciare: “Ecco io faccio ogni cosa nuova”. I miracoli/segni, le guarigioni, le parole di perdono a persone emarginate o dalla vita rovinata, lo scacciare i demoni, le lotte contro l’ambiente religioso del tempo (Farisei e Sadducei), l’annuncio della grazia, il vedere persino negli uccelli del cielo e nei gigli del campo la mano di Dio, sono l’annuncio della presenza concreta di Dio nella storia dell’uomo; la proclamazione di un ribaltamento di valori sociali e culturali imperanti nella società umana, che la mano misericordiosa di Dio opera per stabilire i valori di un Regno in cui giustizia, pace, perdono, misericordia, comunione sono le parole d’ordine.
Il Regno dei cieli è vicino”, così si apre il Vangelo più antico: cioè, Gesù Cristo è qui, e Dio è presente qui in Lui; i valori del Regno dei Cieli non si compiranno un giorno, ma sono già all'opera e camminano verso il loro compimento.
L’opera che Gesù stava per terminare e completare sulla croce, era il culmine dell’atto di rivelazione di Dio attraverso cui Dio stesso si sarebbe definitivamente manifestato come Colui che è a favore dell’uomo, Colui che è presente, Colui che, usando il linguaggio giuridico paolino e poi fatto proprio dai nostri Riformatori, giustifica il peccatore, lo riconcilia a sé, lo trasforma, lo rinnova, gli dona un nuovo inizio e la piena e gratuita comunione con Lui.

Gesù inoltre, parla ai discepoli (e a noi) di una preghiera che Egli stesso rivolge al Padre, affinché giunga un altro Consolatore, cioè un altro che sebbene differente per le modalità della sua presenza, non fisica ma spirituale, sarà uno come Lui nella sua azione di stare con i discepoli (e con noi), di proteggere i discepoli, di intervenire a loro favore, di essere a loro fianco e al contempo di annunciare la grazia e l’amore di Dio al mondo, con la stessa efficacia di un vento che soffia dove vuole e con la stessa impossibilità di disporre di questo vento, di fermarlo, gestirlo o inscatolarlo in recinti religiosi, politici o semplicemente umani.

Infine Gesù, continua a mostrare il fondamento di questa fiducia che sconfigge la paura, aggiungendo un’ulteriore parola di speranza:
Ancora un po’ e il mondo non mi vedrà più, ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete.
La croce ci parla dell’amore di Dio, gratuito, libero e incondizionato nei confronti dell’uomo, ma esso si completa nella risurrezione di Cristo, dove a seguito di essa, nel periodo che segue all'Ascensione, discende l' ulteriore dono dello Spirito Santo.
E’ grazie allo Spirito Santo che Dio cammina ora con il suo popolo ed agisce nel mondo; è grazie allo Spirito Santo che si realizza nel credente quel mistero così pieno di luce e radioso che è la discesa del Padre e del Figlio nel cuore dell’uomo, è grazie allo Spirito Santo che si crea quel legame che nessuno può spezzare e che ci lega a Dio, è grazie allo Spirito Santo che possiamo camminare nel mondo e “vedere”, se non fisicamente, almeno con una vista che va oltre l’orizzonte l’azione del Padre e del Figlio nel mondo, è grazie allo Spirito Santo che siamo inseriti nella comunione con il Dio Trinitario e, infine, è grazie alla sua azione che riceviamo quanto promesso da Gesù stesso: vita - perché io vivo e voi vivrete.

Ecco dunque che la richiesta così paradossale per le nostri menti a una prima analisi, ci viene chiarificata secondo queste direzione: la nostra fiducia in Dio non è un gesto di ottimismo esercitato dalle nostre coscienze, ma una risposta a qualcosa già offertoci da Dio stesso. La nostra fiducia e di conseguenza la nostra azione nel mondo, si basano sul donarsi di Dio a noi in Cristo; sulla sua promessa di fare ogni cosa nuova, annunciata agli uomini di fede dell’antichità e portata avanti con determinazione nella storia dell’uomo, fino ad arrivare all’evento culminante della morte e risurrezione di Cristo; la nostra fiducia si basa sulla conseguenza della preghiera di Cristo al Padre, ovvero la discesa dello Spirito Santo; e, in ultima analisi, la nostra fiducia si basa sull’azione corale e determinata del Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo nel mondo e in noi.
Essa è, da un punto di vista neotestamentario, la sola azione che ci rende capaci di attraversare l’orizzonte degli eventi del nostro mondo, con la forza della speranza, radicata in Dio e nella Sua storia.

Così, chi fa propria questa fiducia in Dio e in Cristo, vero antidoto alla paura, non chiude gli occhi di fronte alle notizie tetre del mondo, non si abbandona al ripiegamento su se stessi, o alla fuga, non fa della proiezione verso un paradiso lontano la scusa religiosa per nascondere la propria mancanza di fede, ma segue le orme di Cristo in questo mondo: egli/ella cerca non solo di vivere nel qui e ora l’osservanza del comandamento d’amore di Cristo (cfr. Giov. 14,15) ma si libera del peso di vivere per se stesso, diventa un piccolo granello di frumento che cade nel suolo, e, insieme ai suoi fratelli e sorelle, che formano la chiesa universale di Cristo, nel coraggio della fiducia in Dio, contraddice la realtà, con atti di speranza, seminando e cercando di far vedere anche agli altri, quello che lui/lei vede oltre l’orizzonte: la presenza del luminoso futuro di Dio, il sogno di Dio per l’uomo, per cui Egli ha dato tutto, fino a dare Suo Figlio Gesù Cristo per noi.


venerdì 12 aprile 2013

Paper presentanto alla SST Conference, 8 -10 Aprile 2013 - Nottingham




Teologia e Rivelazione: Barth, Subilia e la costituzione dogmatica conciliare Dei Verbum














 Alla mia famiglia che sempre

Mi sostiene e accompagna
E mi è stata testimone della rivelazione
Di Dio, di cui oggi posso parlare.
Alla memoria di mio nonno Felice
E della mia bisnonna Margherita:
i primi della nostra famiglia
a essere stati catturati da quella Rivelazione.





I.               Dove si presenta il tema



Il presente saggio ha il compito di illustrare come il concetto teologico di Rivelazione presentato nella Costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II, sia stato oggetto di un’attenta critica da parte di alcuni teologi del mondo protestante. 
Invece di offrire una panoramica generale dell’atteggiamento di tali teologi nei confronti della Costituzione Dei Verbum (da ora DV), la presente trattazione si concentrerà solamente sulle valutazioni proposte da Karl Barth - facendo riferimento a due brevi opere dedicate all’analisi del fenomeno conciliare (Domande a Roma e Conciliorum Tridentini et Vaticani I Inhaerens vestigiis?)[1] - e sulle valutazioni proposte dal teologo italiano, di formazione barthiana, Vittorio Subilia - facendo riferimento al capitolo dedicato alla DV, nella sua opera La nuova cattolicità del Cattolicesimo – Una valutazione protestante del Concilio Vaticano II[2] - .

II.             Dove si illustra la situazione del Cattolicesimo pre-conciliare, le svolte conciliari e alcune conseguenze significative in epoca post-conciliare

In epoca pre-conciliare, due erano le correnti teologiche all’interno della Cattoliceismo che convivevano, non senza tensioni, all’interno della Chiesa: la scuola neo-tomista o neo-scolatisca, e la scuola riformista, chiamata, in tono ironicamente polemico, nouvelle theologie[3].

La teologia neo-scolastica trova le sue origini intorno alla metà del XIX. Essa è una reazione alle provocazioni anti-metafisiche della filosofia kantiana, prima, e dell’assolutismo idealista, di matrice hegeliana, successivo.
Come risposta a tali minacce, che nel Protestantesimo sono invece accolte in forma dialogica e assimilate nell’impianto teologico che darà poi origine al movimento della teologia liberale, il Cattolicesimo oppone un ritorno alla filosofia e alla teologia di stampo tomista. Proprio questo tipo di approccio, diventerà, grazie all’enciclica pontificia Aeterni Patris di Leone XIII (1789) la teologia ufficiale della Chiesa: in sostanza, il riconoscimento pontificio del ruolo svolto nel Concilio Vaticano I da parte del revival tomista, come strumento per riaffermare l’egemonia della Chiesa e, al contempo, per combattere le istanze moderniste da cui la Chiesa si sentiva minacciata[4]. Il metodo di tale scuola teologica aveva il suo nucleo nel deduttivismo, nell’impiego delle categorie della teologia naturale e nella assoluta dipendenza della teologia dal magistero ecclesiastico. Pertanto, come naturale conseguenza, nel campo della Rivelazione, la Bibbia aveva funzione di confermare il dogma, di cui la Chiesa è annunciatrice e custode (La Bibba si riduce così a una collezione di scripta probandi).

La figura del domenicano Marie-Dominique Chenu[5], funge da precursore e da perno di rotazione[6], attorno  al quale, gli studiosi del gruppo di gesuiti della facoltà teologica di Lione-Fourvierè cercheranno di invertire la rotta dello status quo teologico. Il rinnovato interesse suscitato dai pungenti studi del domenicano sulle fonti della teologia cattolica scolastica, rilette in dialogo con la cultura in cui sorsero (teologia storica), e il senso della dogmatica non come disciplina deduttiva e sillogistica, ma come fede in statu scientiae, sono ripresi dagli esponenti della nouvelle theologie: Jean Danielou, Henri de Lubac, Henri Bouillard, Hans Urs von Balthasar e altri ancora Essi sviluppano un metodo teologico che si rivelerà essere il vero antagonista dei principi su cui il neo-tomismo si fondava. E’ convinzione di questi autori che gli studi teologici e storici, come già evidenziato, non si debbano fermare al solo periodo della Scolastica; essi, invece, devono osare un ritorno alle fonti patristiche e al testo biblico. Inoltre, la teologia stessa necessita di un metodo che sia in relazione dialogica con l’ambiente storico, sociale e culturale, in cui la stessa scienza biblica si muove (metodo della correlazione). La teologia che fa suo tale metodo, sarà in ascolto dell’attualità e, proprio a partire dalle domande dell’uomo contemporaneo, cercherà di dare risposte che si muovano nell’orizzonte della fede[7]. 
L’enciclica Humani generis del 1950, dell’allora Papa Pio XII, darà ragione alla corrente conservatrice, cercando per altro di ridurre al silenzio molti dei teologi appartenenti all’area della nouvelle theologie, i quali, soltanto dopo il Concilio Vaticano II saranno completamente riabilitati.

Il Concilio Vaticano II, rappresenterà, non solo all’interno dell’area Cattolica, un vento di novità, seguendo il solco tracciato dal discorso inaugurale di papa Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia. In questa sede non si può riassumere il dibattito conciliare in tutta la sua ampiezza. Basterà ricorda alcune della svolte più indicative, tra cui si menzionano le seguenti:

·      Il rinnovamento della pratica liturgica della messa, la quale è celebrata nel linguaggio corrente e nella quale trova più spazio l’omelia.
·      Una visione della chiesa meno gerarchizzata dove il concetto di popolo di Dio abbia la predominanza e dove la divisione tra clero e laicato sia moderatamente ridotta (almeno dall’idea di un clero a servizio del popolo).
·      L’apertura ad altre confessioni e chiese Cristiane che segna, nella fase immediatamente successiva al Concilio, una stagione di grande ottimismo ecumenico.
·      La volontà di rendere la Chiesa partecipe nel mondo e non più separata dal mondo o sopra il mondo a lei contemporaneo.

Un discorso a parte merita l’impulso dato dalla Costituzione DV alle scienze bibliche e teologiche.  Tra gli aspetti certamente positivi bisogna rilevare:

·      il superamento del sospetto e della condanna delle scienze esegetiche e del metodo storico-critico, visti invece come strumenti utili per una lettura informata e corretta del testo;
·      l’apertura al dialogo con teologi ed esegeti protestanti, che ora condividono con i colleghi cattolici un simile metodo operativo;
·      la diffusione della Bibbia presso i laici e la sua traduzione nelle lingue correnti;
·      il ritorno al testo biblico stesso, come evidenziato anche nel testo della Costituzione DV, che segna in un qualche modo il superamento della metodologia deduttiva su cui poggiava il Concilio Vaticano I, influenzato com’era dal neo-scolasticismo.

Sono conseguenze dirette di questo entusiasmo conciliare e post-conciliare, la nascita di molte società teologiche cattoliche in Italia (ATI, 1967[8];AIPSC, 1967[9];AsCaI, 1969[10]; ApL, 1972[11]; etc)[12];la fondazione di case editrici, come la Queriniana o la Paideia, che diffondono accanto ai testi di teologi ed esegeti cattolici, i testi e le opere di teologi ed esegeti protestanti; lo sviluppo di riviste specialistiche, di alto livello contenutistico, ma con scopo divulgativo, come Concilium; infine, la possibilità per i laici di accedere a cattedre nei seminari, nelle facoltà e negli istituti religiosi.

D’altro canto, questo luccichio, non dovrebbe indurre il lettore a un ottimismo smisurato e a-critico. Infatti, dietro alla passionalità dei dibattiti svoltisi in ambito conciliare, si celava anche un’esplicita volontà di autoconservazione: la necessità di salvaguardare e presevare il deposito della tradizione millenaria della Chiesa Cattolica. Proprio per questa ragione, un anziano, ma sempre vivace Karl Barth in Svizzera, e contemporanemanete a lui, quell’acuto osservatore che fu Vittorio Subilia in Italia, sottoporranno le varie Costituzione del Vaticano II a un’ attenta analisi e critica.

III.           Dove si parla dell’analisi irenico-critica della DV proposta da Karl Barth

La fonte biografica principale sulla vita e sull’attività teologica barthiana, Eberhard Busch,[13] ci informa, in merito al Concilio Vaticano II, di come l’anziano teologo di Basilea si rallegrava di questa primavera e la seguiva con trepidazione[14]. Barth potè giungere a Roma soltanto a lavori conclusi, nel settembre del 1966, a causa di una lunga e debilitante malattia che lo aveva costretto a un ricovero opsedaliero e a un periodo di riabilitazione. Nonostante la visita post festam, si preparò a questa con grande precisione, avendo per altro già studiato alacremente, man mano che venivano prodotti, i vari testi conciliari.
L’atteggiamento barthiano è ben espresso dall’espressione “considerazioni irenico-critiche” che apre il testo sulla DV dal titolo Conciliorum Tridentini et Vaticani I Inhaerens vestigiis. Sia in questo testo, che nelle sue Domande a Roma, traspare una netta volontà di dialogare con il Cattolicesimo, prendendo seriamente in analisi le affermazioni quivi enunciate, studiandole nel contesto della storia della Chiesa Cattolica e valutando le prospettive in una chiave di movimento verso il futuro da parte della Chiesa Cattolica stessa.

La posizione barthiana può essere riassunta nei seguenti punti:

·      Il Concilio non ricalca semplicemente le tracce dei concili del XVI e del XIX secolo, per rimanere fermo nella dottrina che essi hanno formulata […] piuttosto, tenendo il piede sinistro in quelle orme, avanza con il piede destro nella direzione da essi indicata; proviene da quelli, ma procede[15]. Barth rileva, con sorpresa ed entusiasmo, la presenza di una tensione biblica nella costituzione, la quale non si manifesta soltanto nell’utilizzo di molte citazioni tratte dalle Scritture, ma anche nella volontà di ascolto espressa dal proemio della costituzione.[16] In ciò Barth scorge la differenza fondamentale tra i concili precedenti, in particolare il Vaticano I, e il Vaticano II: il primo, succube degli schemi della teologia naturale, esordiva con questioni filosofiche circa la possibilità di conoscere Dio a partire dalla conoscenza naturale e dalla ragione umana; il secondo invece fonda le sue affermazioni sul concetto di libera Rivelazione di Dio (per altro, ciò spingerà il teologo svizzero a porre la domanda di chiarimento sulla assenza di un capitolo De Deo nella DV), che poi si esplicita nella storia della salvezza (DV, cap. IV e V).
·      Il Concilio, secondo Barth, ha un cedimento nel capitolo II della costituzione. Qui il testo, avendo come retroterra il sistema a due fonti del concilio di Trento (Scrittura e Tradizione) e il sistema a quattro fonti del Vaticano I (Scrittura, Tradizione, Ragione/natura e Magistero ecclesiastico), propone uno schema che invece di andare oltre, ricalca quanto affermato in passato. Infatti, il concetto di Rivelazione come atto fondante della fede e della vita della stessa Chiesa, oltre che del singolo credente, viene completato Tradizione e Magistero, formando così una triade inseparabile. Barth è disposto a concedere che la Tradizione sia importante, e anzi, esistente anche nel mondo protestante (tanto che Sola Scriptura non significa una Scrittura solitaria, bensì una Scrittura nell’ambiente ecclesiale), ma non dovrebbe né essere anteposta alla Scrittura né essere frapposta, come strumento di mediazione, tra Dio e l’uomo. Inoltre risulta problematico, in quest’ ottica, l’affiancamento del Magistero alla Tradizione quale interpete autentico della Rivelazione. Barth si chiede: Con che diritto la chiesa cattolica, il cristiano cattolico, con questo cap. II, si lascia di nuovo imporre l’osservanza, diciamo così, dell’evangelista Matteo e di Tommaso da Kempis o di Ignazio di Loyola quali interpreti degli evangelisti? Con che diritto del resto, la chiesa evangelica, il cristiano evangelico, considererebbero con il medesimo rispetto l’apostolo Paolo e Lutero o Calvino, forse anche Zinzendorf o Blumhardt?[…] Il fatto che questa distinzione fondamentale non solo non sia prescritta, ma anzi sia, in riferimento al Tridentino, addirittura vietata, ecco il punto tristemente dolente di questo capitolo.[17] Questo secondo capitolo, viene pertanto definito oscuro, e soltanto la forza liberatoria dei restanti capitoli, dopo gli scoppiettii del primo, controbilanciano queste affermazioni programmatiche. Del resto Barth  era estremamente consapevole che tale capitolo abbia costituito il prezzo da pagare, al fine di raggiungere l’approvazione unanime dei padri conciliari.

In complesso, il teologo svizzero, trae dal testo della DV una speranza per il futuro e la dimensione di un movimento che vede essere proiettato in avanti, tanto da definire questo concilio come un concilio di riforma per la Chiesa Cattolica. Non senza una qualche sottile ironia teologica però, egli si chiede, concludendo lo scritto sulla DV: Che accadrebbe se il concilio del XXI secolo […] si muovesse seguendo le orme del secondo Concilio di Orange?[18]

IV.           Dove si parla dell’analisi della DV proposta da Vittorio Subilia.

Vittorio Subilia, professore di teologia sistematica presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma, è stato uno dei più attenti e precisi studiosi del Cattolicesimo, oltre che teologo acuto e, secondo la testimonianza di un suo alunno, “verbi divini minister fino alla fine: animato da una passione per Dio e la sua parola che non annulla tutto il resto, ma lo illumina e lo informa”.[19] La sua impostazione, d’impronta barthiana, e la sua serietà di studioso l’hanno condotto a una valutazione severa della DV. Fortemente ancorato, nel suo pensiero teologico, alla categoria della Rivelazione di Dio come evento fondante il rapporto tra Dio e uomo, così come anche enunciato in modo magistrale nel primo volume della Kirchliche Dogmatik, Subilia utilizza proprio gli strumenti barthiani per valutare e saggiare le affermazioni conciliari su Scrittura, Tradizione e Magistero. In controtendenza rispetto a molti dei suoi contemporanei, tra cui il suo collega presso la Facoltà Valdese, Valdo Vinay, il teologo aostano ha visto nel Concilio Vaticano II l’ennesima dimostrazione storica della teologia del sic et non (in opposizione alla teologia dell’aut-aut protestante) e del totus (in opposizione ai sola della Riforma Protestante) cattolici, oltre che la capacità metamorfica della Chiesa di far coesistere in sé, elementi discordanti e diversi.

L’analisi di Subilia, cui è dedicato un lungo e intenso capitolo di La nuova cattolicità del Cattolicesimo – Una valutazione protestante del Concilio Vaticano II, si può riassumere nei seguenti punti:

·      La costituzione DV è vista, proprio in base ai suoi contenuti, in una prospettiva di subordinazione alla Lumen Gentium. Proprio lo studio critico della DV, fungerà da perorazione e dimostrazione di questa tesi iniziale.
·      Il Capitolo II viene considerato dal teologo, il capitolo decisivo. In esso si assiste a un’oggettivazione della Rivelazione, nel passaggio da Colui che si rivela e a cui l’uomo presta “religioso ascolto”, alle cose che Egli ha rivelato. Tale fenomeno, non è soltanto un gioco semantico, ma nasconde per Subilia, l’avvenuta mutazione del contenuto della rivelazione stessa, per cui, usando ancora gli stessi termini, si parla di cose assolutamente diverse e questo comporta naturalmente la trasformazione di fondo del rapporto con la rivelazione[20]. In particolare, le cose che Dio ha rivelato diventano un deposito da custodire e introducono la necessità della figura del custode, o dei custodi, del deposito. In questo senso si gettano le premesse per il ruolo del Magistero Cattolico come interprete e custode esclusivo della Scrittura.
·      L’oggettivazione della rivelazione nelle cose che Dio ha rivelato è gravida di conseguenze per Subilia. La prima conseguenza si deve trovare nel restringimento della rivelazione stessa: il problema del rapporto tra l’Antico e il Nuovo Testamento è risolto a favore del Nuovo Testamento: pertanto l’Antico Testamento verrebbe a trovarsi in una situazione di inferiorità teologica e kerygmatica rispetto al Nuovo. Gli scritti veterotestamentari sarebbero degni di devozione ma pur sempre a carattere provvisorio, attendendo di trovare un loro completamente definitivo nel Nuovo Testamento e nella Chiesa: In fondo ci si potrebbe spingere a dire che il disaccordo cattolico-protestante ha una della sue radiciin questa diversità di valutazione dell’Antico Testamento, come norma profetica di valore attuale oppure come parola vera e valida un tempo, ma ormai sorpassata per i cristiani, che hanno, non attendono.[21] La seconda conseguenza consiste nella sacralizzazione della Scrittura. Essa, seguendo quanto già annunciato in due encliche quali la Provvidentissimus Deus (1893) e la Divino afflante Spiritu (1943), possederebbe gli attributi della inerranza e dell’ispirazione totale. Ciò, seguendo la teologia Cattolica soggiacente a questa proposizione teologica, sarebbe il risultato del prolungamento del mistero dell’incarnazione di Cristo, mistero che in una delle forme primordiali si prolunga nella Scrittura (cosicchè con una sorta di comunicatio idiomatum, si ascrivono agli scritti biblici gli attributi divini), ma che trova il suo compimento definitivo nella pienenezza della Chiesa. In questo senso, attraverso una transutanziazione dello strumento della rivelazione (la Scrittura), che passa dalla sfera dell’umano a quella del divino, si spiegherebbe anche l’esistenza del dogma mariano o della teologia eucaristica,[22] che altro non sono che l’esatta controparte della sacralizzazione delle Scritture. Conclude Subilia che anche le scienze bibliche, tra cui l’esegesi e la teologia dogmatica, perdono la loro funzione critica all’interno della Chiesa: L’esegesi è e rimane al servizio di quella inerrantia Scripturae che è in stretta connessione con la inerrantia Ecclesiae ed ha il compito di mostrarla e giustificarla.[23]
·      Sebbene siano preservate, in senso sacramentale, l’ispirazione e l’inerranza delle Scritture, ciò a cui giunge il Concilio, nell’affiancare alla rivelazione scritta, la Tradizione e il Magistero ecclesiastico, è la negazione della sufficienza delle Scritture. I paragrafi VII e VIII della DV a questo proposito risultano essere, per il teologo aostano, sintomatici. Nel momento in cui si utilizzano gli strumenti della ricerca critico-esegetica (critica delle forme e storia della tradizione in primis) per delegittimare il canone neotestamentario, adducendo come motivazione che la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con successione continua fino alla fine dei tempi,[24] si giunge a potenziare e legittimare l’autorità episcopale sulla Scrittura e, di rimando, l’autorità del Magistero su di essa.
Il paragrafo VIII della costituzione conciliare, contiene, nel giudizio di Subilia, un’altra espressione problematica: Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo; cresce infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse […] La Chiesa nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finchè in essa vengano a compimento le parole di Dio. Le affermazioni utilizzate rivelano l’aderenza a una teologia della integrazione e della esplicitazione dogmatica che dissodano il terreno al terzo elemento, il quale si inserisce a fianco di Scrittura e Tradizione e che ne rappresenza la sintesi logica: la Chiesa (o il Magistero). La Chiesa illumina e completa sia la Rivelazione sia la Tradizione, là dove esse sono parziali o non chiare. Si capovolgono così i rapporti che intercorrono tra Tradizione, Magistero e Scrittura: non è più la Scrittura che giudica Magistero e Tradizione, ma è il Magistero, attraverso la sua autorità intrinseca e attraverso il deposito della Tradizione, che si erge sulla Scrittura, come completamento e perzionamento dell’evento della rivelazione. In ciò si dimostra vera la tesi iniziale, per cui la costituzione DV è, in realtà, assoggetta alla Costituzione Lumen Gentium. Ai cinque cardini della Riforma protestante, espressi attraverso i cinque sola, dove è l’evento fondativo della rivelazione di Dio in Cristo che ha come conseguenza il Sola Scrittura, si sostituisce il Soli vivo Ecclesiae Magistero (DV, par. X).

In conclusione, la costituzione pone un quesito ancor più scottante concernente la comprensione del Cattolicesimo e, in generale, della Chiesa e della natura stessa dell’annuncio cristiano. Senza mezzi termini, ricordando per altro la ruvida franchezza barthiana, viene posta la seguente domanda: Si tratta di stabilire in fondo con esatta concretezza qual è il contenuto dell’Evangelo: Cristo o la Chiesa?[25]. Si tratta di scegliere tra una teologia dell’incarnazione, che giustifica l’apporre alla Chiesa gli attributi dell’umanità di Cristo (e che vincola la libertà dell’iniziativa divina alla mediazione della Chiesa), e una teologia dell’ascensione, dove la presenza attuale del Signore è quindi extra nos e può concretarsi pro nobis soltanto nella testimonianza che di Lui rendono le Scritture, che lo Spirito, dove e quando, ubi et quando, lo ritiene opportuno nella sua sovrana libertà, rende efficaci e vivificanti, perché Egli sia in nobis e così noi possiamo costituire il suo corpo, […] affinchè il suo Nome sia trasmesso, traditum, ad altri[26].


V.             Dove si espongono alcune considerazioni conclusive

Certamente il fenomeno conciliare ha rappresentato, rispetto all’immagine di stasi, offerta dalla storia della Chiesa cattolica dal XVI alla prima metà del XX secolo, un panorama nuovo e dinamico.
I due teologi protestanti, di cui si è trattato in questo saggio, hanno però riscontrato come a fianco del senso di novità vi sia anche un forte legame con la tradizione e i concili che hanno preceduto il Vaticano II, fino al punto di ricadere, in aspetti fondamentali, negli antichi schemi che ponevano il Cattolicesimo e il Protestantesimo su due fronti diversi. Le analisi dei due teologi sono accomunate da una grande libertà intellettuale, nel rilevare non solo la positiva tensione biblica della costituzione DV, ma anche i suoi lati oscuri.
Ciò che accomuna ancor di più Barth e Subilia è quella, che con espressione barthiana, si potrebbe chiamare la concentrazione cristologica o, con espressione subliana, una teologia del Nome. In ultima analisi, non vi è una mera preoccupazione confessionale, volta a difende la propria posizione, quanto, piuttosto, una passione bruciante per quel Dio che nella sua assoluta libertà si è rivelato all’uomo, in Cristo, e lo ha chiamato a essere suo partner amato, per grazia. Solus Christus, sola Scriptura, sola gratia.

Jonathan S. Benatti



[1] Karl Barth e il Concilio Vaticano II - Ad limina apostolorum e altri scritti, a cura di F. Ferrario e M. Vergottini,  Claudiana, 2012, pagg. 79-98; 99-110.
[2] V. Subilia, La nuova cattolicità del Cattolicesimo – Una valutazione protestante del Concilio Vaticano Secondo, Claudiana, 1967.
[3] L’espressione è stata coniata dal teologo Pietro Parente in un articolo, uscito sulle pagine dell’Osservatore Romano, concernente la condanna, da parte del Magistero, di Marie-Dominique Chenu e Louis Charlier. In senso lato, si applica a quei teologi che fecero parte dell’ala progressista, nel periodo pre-conciliare.
[4] Non solo il kantismo e l’hegelianesimo furono oggetto degli strali magisteriali, ma anche il liberalismo, il darwinismo e il socialismo.  In sostanza, l’atteggiamento ufficiale cattolico fu quello di uno spinto anti-modernismo. Proprio in questa funzione si deve leggere la proclamazione dei nuovi dogmi mariani e la proclamazione dell’infallibilità del Papa.
[5] Marie-Dominque Chenu (1895-1990), fu professore di storia delle dottrine cristiane a Le Saulchoir nel periodo che va dal 1920 al 1942. Della stessa scuola fu reggente proprio fino al 1942, anno in cui il suo Le Saulchoir: una scuola di teologia fu messo all’Indice. Fu riabilitato in seguito e partecipò come perito al Concilio Vaticano Secondo. Per un breve, ma denso resconto della vita di questo grande studioso e teologo, si consiglia R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, 1992, pagg. 210-216.
[6] In questa sede non si può parlare in modo dettagliato, ma soltanto accennare di altre due figure importanti, che in qualche modo hanno contribuito al rinnovamento della teologia cattolica: Alfred Loisy e Maurice Blondel. Per altri dettagli, si rimanda a R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, 1992, pagg. 162-173.
[7] “Rinnovata alle fonti profonde della vita religiosa, vivificata dal suo contatto con le correnti del pensiero contemporaneo, la teologia deve, per essere viva, rispondere a una terza esigenza: essa deve tener conto dei bisogni delle anime.” J. Danielou, Les orientations presentes de la pensee religieuse, in Etudes t. 249, avril 1946, 5-21.
[8] Associazione teologica italiana.
[9] Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa.
[10] Associazione canonistica italiana.
[11] Associazioni professori e cultori di liturgia
[12] Per approfondire la storia della nascita e dello sviluppo di queste associazioni, ora raggrupate nel Coordinamento associazioni teologiche italiane (CATI), si veda P. Ciardella, A. Montan Le scienze teologiche in Italia a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, Elledici, pagg. 3-10
[13] E. Busch, Karl Barth – Biografia, Queriniana, 1977.
[14] E. Busch, Karl Barth e il Concilio Vaticano II, in Karl Barth e il Concilio Vaticano II – Ad limina apostolorum e altri scritti, a cura di F. Ferrario e M. Vergottini, Claudiana, 2012, pag. 7.
[15] Karl Barth, Conciliorum Tridentini et Vaticani I Inhaerens vestigiis, in Karl Barth e il Concilio Vaticano II – Ad limina apostolorum e altri scritti, a cura di F. Ferrario e M. Vergottini, Claudiana, 2012, pag. 100.
[16] In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il santo Concilio fa sue queste parole di San Giovanni: Annunziamo a voi la vita eterna che era presso il Padre e si manifestò a noi […]. Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Dei Verbum, 18 Novembre 1965.
[17] Karl Barth, Conciliorum Tridentini et Vaticani I Inhaerens vestigiis, in Karl Barth e il Concilio Vaticano II – Ad limina apostolorum e altri scritti, a cura di F. Ferrario e M. Vergottini, Claudiana, 2012, pag. 106, 107.

[18] Karl Barth, Conciliorum Tridentini et Vaticani I Inhaerens vestigiis, in Karl Barth e il Concilio Vaticano II – Ad limina apostolorum e altri scritti, a cura di F. Ferrario e M. Vergottini, Claudiana, 2012.
[19] G. Conte, Vittorio Subilia: un profilo, in Il pluralismo nelle origini Cristiane – Scritti in onore di Vittorio Subilia, ed. Claudiana, 1994.
[20] V. Subilia, La nuova cattolicità del Cattolicesimo, Claudiana, 1967, Pag. 185.
[21] Ibid. pag. 187
[22]Gli aspetti umani e storici della Scrittura non sono affatto negati o soppressi: se lo fossero verrebbe ad essere negato il dogma centrale del Cattolicesimo, che è appunto il dogma dell’incarnazione, e con esso quella cooperazione tra il Creatore e la creatura che trova la sua espressione più evidente nel dogma mariano. Ma si ha l’impressione che tali aspetti siano relegati a esercitare una funzione che fa ricordare quell’antica eresia che sottolineava la natura divina di Cristo e vedeva la sua umanità come semplice apparenza, oppure gli accidenti, il velo delle sacre specie sacramentali, nel dogma della transustanziazione: la sostanza della Scrittura è divina, Dio ne è l’autore, tutte le affermazioni in essa contenute devono essere attribuite allo Spirito Santo e devono essere ritenute immuni da errore, come per una sorta di immacolata concezione letteraria.” Ibid. pag. 189-190.
[23] Ibid. pag. 191
[24] E’ la stessa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei Libri Sacri, e in essa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le Scritture stesse. Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum, par. 8.
[25] V. Subilia, La nuova cattolicità del Cattolicesimo, Claudiana, 1967, pag. 210
[26] Ibid. pag. 21.