Teologia e Rivelazione: Barth, Subilia e la costituzione dogmatica conciliare Dei Verbum
Mi sostiene e accompagna
E mi è stata testimone
della rivelazione
Di Dio, di cui oggi posso
parlare.
Alla memoria di mio nonno
Felice
E della mia bisnonna
Margherita:
i primi della nostra
famiglia
a essere stati catturati da
quella Rivelazione.
I.
Dove si presenta il tema
Il
presente saggio ha il compito di illustrare come il concetto teologico di
Rivelazione presentato nella Costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II, sia stato oggetto di
un’attenta critica da parte di alcuni teologi del mondo protestante.
Invece
di offrire una panoramica generale dell’atteggiamento di tali teologi nei
confronti della Costituzione Dei Verbum
(da ora DV), la presente trattazione si concentrerà solamente sulle valutazioni
proposte da Karl Barth - facendo riferimento a due brevi opere dedicate
all’analisi del fenomeno conciliare (Domande
a Roma e Conciliorum Tridentini et
Vaticani I Inhaerens vestigiis?)[1]
- e sulle valutazioni proposte dal teologo italiano, di formazione barthiana,
Vittorio Subilia - facendo riferimento al capitolo dedicato alla DV, nella sua
opera La nuova cattolicità del
Cattolicesimo – Una valutazione protestante del Concilio Vaticano II[2]
- .
II.
Dove si illustra la situazione del
Cattolicesimo pre-conciliare, le svolte conciliari e alcune conseguenze
significative in epoca post-conciliare
In
epoca pre-conciliare, due erano le correnti teologiche all’interno della
Cattoliceismo che convivevano, non senza tensioni, all’interno della Chiesa: la
scuola neo-tomista o neo-scolatisca, e la scuola riformista, chiamata, in tono
ironicamente polemico, nouvelle theologie[3].
La
teologia neo-scolastica trova le
sue origini intorno alla metà del XIX. Essa è una reazione alle provocazioni
anti-metafisiche della filosofia kantiana, prima, e dell’assolutismo idealista,
di matrice hegeliana, successivo.
Come
risposta a tali minacce, che nel Protestantesimo sono invece accolte in forma
dialogica e assimilate nell’impianto teologico che darà poi origine al
movimento della teologia liberale, il
Cattolicesimo oppone un ritorno alla filosofia e alla teologia di stampo
tomista. Proprio questo tipo di approccio, diventerà, grazie all’enciclica
pontificia Aeterni Patris di Leone
XIII (1789) la teologia ufficiale
della Chiesa: in sostanza, il riconoscimento pontificio del ruolo svolto nel
Concilio Vaticano I da parte del revival
tomista, come strumento per riaffermare l’egemonia della Chiesa e, al
contempo, per combattere le istanze moderniste da cui la Chiesa si sentiva
minacciata[4].
Il metodo di tale scuola teologica aveva il suo nucleo nel deduttivismo,
nell’impiego delle categorie della teologia naturale e nella assoluta
dipendenza della teologia dal magistero ecclesiastico. Pertanto, come naturale
conseguenza, nel campo della Rivelazione, la Bibbia aveva funzione di
confermare il dogma, di cui la Chiesa è annunciatrice e custode (La Bibba si riduce
così a una collezione di scripta probandi).
La
figura del domenicano Marie-Dominique Chenu[5],
funge da precursore e da perno di rotazione[6],
attorno al quale, gli studiosi del
gruppo di gesuiti della facoltà teologica di Lione-Fourvierè cercheranno di
invertire la rotta dello status quo
teologico. Il rinnovato interesse suscitato dai pungenti studi del domenicano
sulle fonti della teologia cattolica scolastica, rilette in dialogo con la
cultura in cui sorsero (teologia storica),
e il senso della dogmatica non come disciplina deduttiva e sillogistica, ma
come fede in statu scientiae, sono
ripresi dagli esponenti della nouvelle
theologie: Jean Danielou, Henri de Lubac, Henri Bouillard, Hans Urs von
Balthasar e altri ancora Essi
sviluppano un metodo teologico che si rivelerà essere il vero antagonista dei
principi su cui il neo-tomismo si fondava. E’ convinzione di questi autori che
gli studi teologici e storici, come già evidenziato, non si debbano fermare al
solo periodo della Scolastica; essi, invece, devono osare un ritorno alle fonti
patristiche e al testo biblico. Inoltre, la teologia stessa necessita di un
metodo che sia in relazione dialogica con l’ambiente storico, sociale e
culturale, in cui la stessa scienza biblica si muove (metodo della correlazione). La teologia che fa suo tale metodo,
sarà in ascolto dell’attualità e, proprio a partire dalle domande dell’uomo
contemporaneo, cercherà di dare risposte che si muovano nell’orizzonte della
fede[7].
L’enciclica
Humani generis del 1950, dell’allora Papa
Pio XII, darà ragione alla corrente conservatrice, cercando per altro di
ridurre al silenzio molti dei teologi appartenenti all’area della nouvelle theologie, i quali, soltanto
dopo il Concilio Vaticano II saranno completamente riabilitati.
Il
Concilio Vaticano II, rappresenterà, non solo all’interno dell’area Cattolica,
un vento di novità, seguendo il solco tracciato dal discorso inaugurale di papa
Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia.
In questa sede non si può riassumere il dibattito conciliare in tutta la sua
ampiezza. Basterà ricorda alcune della svolte più indicative, tra cui si
menzionano le seguenti:
·
Il
rinnovamento della pratica liturgica della messa,
la quale è celebrata nel linguaggio corrente e nella quale trova più spazio
l’omelia.
·
Una visione
della chiesa meno gerarchizzata dove il concetto di popolo di Dio abbia la predominanza e dove la divisione tra clero e
laicato sia moderatamente ridotta (almeno dall’idea di un clero a servizio del
popolo).
·
L’apertura
ad altre confessioni e chiese Cristiane che segna, nella fase immediatamente
successiva al Concilio, una stagione di grande ottimismo ecumenico.
·
La
volontà di rendere la Chiesa partecipe nel mondo e non più separata dal mondo o
sopra il mondo a lei contemporaneo.
Un
discorso a parte merita l’impulso dato dalla Costituzione DV alle scienze
bibliche e teologiche. Tra gli
aspetti certamente positivi bisogna rilevare:
·
il
superamento del sospetto e della condanna delle scienze esegetiche e del metodo
storico-critico, visti invece come strumenti utili per una lettura informata e
corretta del testo;
·
l’apertura
al dialogo con teologi ed esegeti protestanti, che ora condividono con i
colleghi cattolici un simile metodo operativo;
·
la
diffusione della Bibbia presso i laici e la sua traduzione nelle lingue
correnti;
·
il
ritorno al testo biblico stesso, come evidenziato anche nel testo della
Costituzione DV, che segna in un qualche modo il superamento della metodologia deduttiva
su cui poggiava il Concilio Vaticano I, influenzato com’era dal neo-scolasticismo.
Sono
conseguenze dirette di questo entusiasmo conciliare e post-conciliare, la
nascita di molte società teologiche cattoliche in Italia (ATI, 1967[8];AIPSC,
1967[9];AsCaI,
1969[10];
ApL, 1972[11];
etc)[12];la
fondazione di case editrici, come la Queriniana
o la Paideia, che diffondono accanto
ai testi di teologi ed esegeti cattolici, i testi e le opere di teologi ed
esegeti protestanti; lo sviluppo di riviste specialistiche, di alto livello
contenutistico, ma con scopo divulgativo, come Concilium; infine, la possibilità per i laici di accedere a
cattedre nei seminari, nelle facoltà e negli istituti religiosi.
D’altro
canto, questo luccichio, non dovrebbe indurre il lettore a un ottimismo
smisurato e a-critico. Infatti, dietro alla passionalità dei dibattiti svoltisi
in ambito conciliare, si celava anche un’esplicita volontà di
autoconservazione: la necessità di salvaguardare e presevare il deposito della
tradizione millenaria della Chiesa Cattolica. Proprio per questa ragione, un
anziano, ma sempre vivace Karl Barth in Svizzera, e contemporanemanete a lui,
quell’acuto osservatore che fu Vittorio Subilia in Italia, sottoporranno le
varie Costituzione del Vaticano II a un’ attenta analisi e critica.
III.
Dove si parla dell’analisi
irenico-critica della DV proposta da Karl Barth
La
fonte biografica principale sulla vita e sull’attività teologica barthiana,
Eberhard Busch,[13] ci informa,
in merito al Concilio Vaticano II, di come l’anziano
teologo di Basilea si rallegrava di questa primavera e la seguiva con trepidazione[14].
Barth potè giungere a Roma soltanto a lavori conclusi, nel settembre del 1966,
a causa di una lunga e debilitante malattia che lo aveva costretto a un
ricovero opsedaliero e a un periodo di riabilitazione. Nonostante la visita post festam, si preparò a questa con
grande precisione, avendo per altro già studiato alacremente, man mano che
venivano prodotti, i vari testi conciliari.
L’atteggiamento
barthiano è ben espresso dall’espressione “considerazioni
irenico-critiche” che apre il testo sulla DV dal titolo Conciliorum Tridentini et Vaticani I
Inhaerens vestigiis. Sia in questo testo, che nelle sue Domande a Roma, traspare una netta
volontà di dialogare con il Cattolicesimo, prendendo seriamente in analisi le
affermazioni quivi enunciate, studiandole nel contesto della storia della
Chiesa Cattolica e valutando le prospettive in una chiave di movimento verso il
futuro da parte della Chiesa Cattolica stessa.
La
posizione barthiana può essere riassunta nei seguenti punti:
·
Il
Concilio non ricalca semplicemente le
tracce dei concili del XVI e del XIX secolo, per rimanere fermo nella dottrina
che essi hanno formulata […] piuttosto, tenendo il piede sinistro in quelle
orme, avanza con il piede destro nella direzione da essi indicata; proviene da
quelli, ma procede[15]. Barth
rileva, con sorpresa ed entusiasmo, la presenza di una tensione biblica nella
costituzione, la quale non si manifesta soltanto nell’utilizzo di molte
citazioni tratte dalle Scritture, ma anche nella volontà di ascolto espressa dal proemio della
costituzione.[16] In ciò
Barth scorge la differenza fondamentale tra i concili precedenti, in
particolare il Vaticano I, e il Vaticano II: il primo, succube degli schemi
della teologia naturale, esordiva con questioni filosofiche circa la
possibilità di conoscere Dio a partire dalla conoscenza naturale e dalla
ragione umana; il secondo invece fonda le sue affermazioni sul concetto di libera Rivelazione di Dio (per altro,
ciò spingerà il teologo svizzero a porre la domanda di chiarimento sulla
assenza di un capitolo De Deo nella
DV), che poi si esplicita nella storia della salvezza (DV, cap. IV e V).
·
Il
Concilio, secondo Barth, ha un cedimento
nel capitolo II della costituzione. Qui il testo, avendo come retroterra il
sistema a due fonti del concilio di Trento (Scrittura e Tradizione) e il
sistema a quattro fonti del Vaticano I (Scrittura, Tradizione, Ragione/natura e
Magistero ecclesiastico), propone uno schema che invece di andare oltre,
ricalca quanto affermato in passato. Infatti, il concetto di Rivelazione come
atto fondante della fede e della vita della stessa Chiesa, oltre che del
singolo credente, viene completato Tradizione e Magistero, formando così una
triade inseparabile. Barth è disposto a concedere che la Tradizione sia
importante, e anzi, esistente anche nel mondo protestante (tanto che Sola Scriptura non significa una
Scrittura solitaria, bensì una Scrittura nell’ambiente ecclesiale), ma non
dovrebbe né essere anteposta alla Scrittura né essere frapposta, come strumento
di mediazione, tra Dio e l’uomo. Inoltre risulta problematico, in quest’
ottica, l’affiancamento del Magistero alla Tradizione quale interpete autentico
della Rivelazione. Barth si chiede: Con
che diritto la chiesa cattolica, il cristiano cattolico, con questo cap. II, si
lascia di nuovo imporre l’osservanza, diciamo così, dell’evangelista Matteo e
di Tommaso da Kempis o di Ignazio di Loyola quali interpreti degli evangelisti?
Con che diritto del resto, la chiesa evangelica, il cristiano evangelico,
considererebbero con il medesimo rispetto l’apostolo Paolo e Lutero o Calvino,
forse anche Zinzendorf o Blumhardt?[…] Il fatto che questa distinzione
fondamentale non solo non sia prescritta, ma anzi sia, in riferimento al
Tridentino, addirittura vietata, ecco il punto tristemente dolente di questo
capitolo.[17]
Questo secondo capitolo, viene pertanto definito oscuro, e soltanto la forza
liberatoria dei restanti capitoli, dopo gli scoppiettii del primo,
controbilanciano queste affermazioni programmatiche. Del resto Barth era estremamente consapevole che tale
capitolo abbia costituito il prezzo da pagare, al fine di raggiungere
l’approvazione unanime dei padri conciliari.
In
complesso, il teologo svizzero, trae dal testo della DV una speranza per il
futuro e la dimensione di un movimento che vede essere proiettato in avanti,
tanto da definire questo concilio come un concilio di riforma per la Chiesa Cattolica. Non senza una qualche sottile
ironia teologica però, egli si chiede, concludendo lo scritto sulla DV: Che accadrebbe se il concilio del XXI secolo
[…] si muovesse seguendo le orme del secondo Concilio di Orange?[18]
IV.
Dove si parla dell’analisi della DV
proposta da Vittorio Subilia.
Vittorio
Subilia, professore di teologia sistematica presso la Facoltà Valdese di
Teologia di Roma, è stato uno dei più attenti e precisi studiosi del
Cattolicesimo, oltre che teologo acuto e, secondo la testimonianza di un suo
alunno, “verbi divini minister fino alla
fine: animato da una passione per Dio e la sua parola che non annulla tutto il
resto, ma lo illumina e lo informa”.[19]
La sua impostazione, d’impronta barthiana, e la sua serietà di studioso l’hanno
condotto a una valutazione severa della DV. Fortemente ancorato, nel suo
pensiero teologico, alla categoria della Rivelazione di Dio come evento fondante
il rapporto tra Dio e uomo, così come anche enunciato in modo magistrale nel
primo volume della Kirchliche Dogmatik,
Subilia utilizza proprio gli strumenti barthiani per valutare e saggiare le
affermazioni conciliari su Scrittura, Tradizione e Magistero. In controtendenza
rispetto a molti dei suoi contemporanei, tra cui il suo collega presso la
Facoltà Valdese, Valdo Vinay, il teologo aostano ha visto nel Concilio Vaticano
II l’ennesima dimostrazione storica della teologia del sic et non (in opposizione alla teologia dell’aut-aut protestante) e del totus
(in opposizione ai sola della Riforma
Protestante) cattolici, oltre che la capacità metamorfica della Chiesa di far
coesistere in sé, elementi discordanti e diversi.
L’analisi
di Subilia, cui è dedicato un lungo e intenso capitolo di La nuova cattolicità del Cattolicesimo – Una valutazione protestante
del Concilio Vaticano II, si può riassumere nei seguenti punti:
·
La
costituzione DV è vista, proprio in base ai suoi contenuti, in una prospettiva
di subordinazione alla Lumen Gentium.
Proprio lo studio critico della DV, fungerà da perorazione e dimostrazione di
questa tesi iniziale.
·
Il
Capitolo II viene considerato dal teologo, il capitolo decisivo. In esso si
assiste a un’oggettivazione della Rivelazione, nel passaggio da Colui che si rivela e a cui l’uomo
presta “religioso ascolto”, alle cose che Egli ha rivelato. Tale
fenomeno, non è soltanto un gioco semantico, ma nasconde per Subilia,
l’avvenuta mutazione del contenuto della
rivelazione stessa, per cui, usando ancora gli stessi termini, si parla di cose
assolutamente diverse e questo comporta naturalmente la trasformazione di fondo
del rapporto con la rivelazione[20].
In particolare, le cose che Dio ha
rivelato diventano un deposito da custodire e introducono la necessità
della figura del custode, o dei custodi, del deposito. In questo senso si
gettano le premesse per il ruolo del Magistero Cattolico come interprete e
custode esclusivo della Scrittura.
·
L’oggettivazione
della rivelazione nelle cose che Dio ha
rivelato è gravida di conseguenze per Subilia. La prima conseguenza si deve trovare nel restringimento della
rivelazione stessa: il problema del rapporto tra l’Antico e il Nuovo Testamento
è risolto a favore del Nuovo Testamento: pertanto l’Antico Testamento verrebbe
a trovarsi in una situazione di inferiorità teologica e kerygmatica rispetto al
Nuovo. Gli scritti veterotestamentari sarebbero degni di devozione ma pur
sempre a carattere provvisorio, attendendo di trovare un loro completamente
definitivo nel Nuovo Testamento e nella Chiesa: In fondo ci si potrebbe spingere a dire che il disaccordo
cattolico-protestante ha una della sue radiciin questa diversità di valutazione
dell’Antico Testamento, come norma profetica di valore attuale oppure come parola
vera e valida un tempo, ma ormai sorpassata per i cristiani, che hanno, non
attendono.[21] La seconda conseguenza consiste nella
sacralizzazione della Scrittura. Essa, seguendo quanto già annunciato in due
encliche quali la Provvidentissimus Deus (1893)
e la Divino afflante Spiritu (1943),
possederebbe gli attributi della inerranza e dell’ispirazione totale. Ciò,
seguendo la teologia Cattolica soggiacente a questa proposizione teologica,
sarebbe il risultato del prolungamento del mistero dell’incarnazione di Cristo,
mistero che in una delle forme primordiali si prolunga nella Scrittura
(cosicchè con una sorta di comunicatio
idiomatum, si ascrivono agli scritti biblici gli attributi divini), ma che
trova il suo compimento definitivo nella pienenezza della Chiesa. In questo
senso, attraverso una transutanziazione dello strumento della rivelazione (la
Scrittura), che passa dalla sfera dell’umano a quella del divino, si
spiegherebbe anche l’esistenza del dogma mariano o della teologia eucaristica,[22]
che altro non sono che l’esatta controparte della sacralizzazione delle
Scritture. Conclude Subilia che anche le scienze bibliche, tra cui l’esegesi e
la teologia dogmatica, perdono la loro funzione critica all’interno della
Chiesa: L’esegesi è e rimane al servizio
di quella inerrantia Scripturae che è in stretta connessione con la inerrantia
Ecclesiae ed ha il compito di mostrarla e giustificarla.[23]
·
Sebbene
siano preservate, in senso sacramentale, l’ispirazione e l’inerranza delle
Scritture, ciò a cui giunge il Concilio, nell’affiancare alla rivelazione
scritta, la Tradizione e il Magistero ecclesiastico, è la negazione della sufficienza delle Scritture. I paragrafi
VII e VIII della DV a questo proposito risultano essere, per il teologo
aostano, sintomatici. Nel momento in cui si utilizzano gli strumenti della
ricerca critico-esegetica (critica delle forme e storia della tradizione in
primis) per delegittimare il canone neotestamentario, adducendo come
motivazione che la predicazione
apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser
conservata con successione continua fino alla fine dei tempi,[24]
si giunge a potenziare e legittimare l’autorità episcopale sulla Scrittura e, di rimando, l’autorità del Magistero su di essa.
Il paragrafo VIII della costituzione
conciliare, contiene, nel giudizio di Subilia, un’altra espressione
problematica: Questa tradizione di
origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito
Santo; cresce infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole
trasmesse […] La Chiesa nel corso dei secoli, tende incessantemente alla
pienezza della verità divina, finchè in essa vengano a compimento le parole di
Dio. Le affermazioni utilizzate rivelano l’aderenza a una teologia della
integrazione e della esplicitazione dogmatica che dissodano il terreno al terzo
elemento, il quale si inserisce a fianco di Scrittura e Tradizione e che ne rappresenza
la sintesi logica: la Chiesa (o il Magistero). La Chiesa illumina e completa
sia la Rivelazione sia la Tradizione, là dove esse sono parziali o non chiare.
Si capovolgono così i rapporti che intercorrono tra Tradizione, Magistero e
Scrittura: non è più la Scrittura che giudica Magistero e Tradizione, ma è il
Magistero, attraverso la sua autorità intrinseca e attraverso il deposito della
Tradizione, che si erge sulla Scrittura, come completamento e perzionamento
dell’evento della rivelazione. In ciò si dimostra vera la tesi iniziale, per
cui la costituzione DV è, in realtà, assoggetta alla Costituzione Lumen Gentium. Ai cinque cardini della
Riforma protestante, espressi attraverso i cinque sola, dove è l’evento fondativo della rivelazione di Dio in Cristo
che ha come conseguenza il Sola Scrittura, si sostituisce il Soli vivo Ecclesiae Magistero (DV, par.
X).
In conclusione, la costituzione pone un
quesito ancor più scottante concernente la comprensione del Cattolicesimo e, in
generale, della Chiesa e della natura stessa dell’annuncio cristiano. Senza
mezzi termini, ricordando per altro la ruvida franchezza barthiana, viene posta
la seguente domanda: Si tratta di
stabilire in fondo con esatta concretezza qual è il contenuto dell’Evangelo:
Cristo o la Chiesa?[25]. Si
tratta di scegliere tra una teologia
dell’incarnazione, che giustifica l’apporre alla Chiesa gli attributi
dell’umanità di Cristo (e che vincola la libertà dell’iniziativa divina alla
mediazione della Chiesa), e una teologia
dell’ascensione, dove la presenza
attuale del Signore è quindi extra nos e può concretarsi pro nobis soltanto
nella testimonianza che di Lui rendono le Scritture, che lo Spirito, dove e
quando, ubi et quando, lo ritiene opportuno nella sua sovrana libertà, rende
efficaci e vivificanti, perché Egli sia in nobis e così noi possiamo costituire
il suo corpo, […] affinchè il suo Nome sia trasmesso, traditum, ad altri[26].
V.
Dove si espongono alcune considerazioni
conclusive
Certamente
il fenomeno conciliare ha rappresentato, rispetto all’immagine di stasi,
offerta dalla storia della Chiesa cattolica dal XVI alla prima metà del XX secolo,
un panorama nuovo e dinamico.
I
due teologi protestanti, di cui si è trattato in questo saggio, hanno però
riscontrato come a fianco del senso di novità vi sia anche un forte legame con
la tradizione e i concili che hanno preceduto il Vaticano II, fino al punto di
ricadere, in aspetti fondamentali, negli antichi schemi che ponevano il
Cattolicesimo e il Protestantesimo su due fronti diversi. Le analisi dei due
teologi sono accomunate da una grande libertà intellettuale, nel rilevare non
solo la positiva tensione biblica della costituzione DV, ma anche i suoi lati
oscuri.
Ciò
che accomuna ancor di più Barth e Subilia è quella, che con espressione
barthiana, si potrebbe chiamare la concentrazione cristologica o, con
espressione subliana, una teologia del Nome. In ultima analisi, non vi è una
mera preoccupazione confessionale, volta a difende la propria posizione,
quanto, piuttosto, una passione bruciante per quel Dio che nella sua assoluta
libertà si è rivelato all’uomo, in Cristo, e lo ha chiamato a essere suo
partner amato, per grazia. Solus
Christus, sola Scriptura, sola gratia.
Jonathan S. Benatti
[1] Karl Barth e il Concilio Vaticano II - Ad
limina apostolorum e altri scritti, a cura di F. Ferrario e M.
Vergottini, Claudiana, 2012, pagg.
79-98; 99-110.
[2] V. Subilia, La nuova cattolicità del Cattolicesimo – Una
valutazione protestante del Concilio Vaticano Secondo, Claudiana, 1967.
[3]
L’espressione è stata coniata dal teologo Pietro Parente in un articolo, uscito
sulle pagine dell’Osservatore Romano, concernente la condanna, da parte del
Magistero, di Marie-Dominique Chenu e Louis Charlier. In senso lato, si applica
a quei teologi che fecero parte dell’ala progressista, nel periodo
pre-conciliare.
[4] Non solo il
kantismo e l’hegelianesimo furono oggetto degli strali magisteriali, ma anche
il liberalismo, il darwinismo e il socialismo. In sostanza, l’atteggiamento ufficiale cattolico fu quello
di uno spinto anti-modernismo. Proprio in questa funzione si deve leggere la
proclamazione dei nuovi dogmi mariani e la proclamazione dell’infallibilità del
Papa.
[5]
Marie-Dominque Chenu (1895-1990), fu professore di storia delle dottrine
cristiane a Le Saulchoir nel periodo che va dal 1920 al 1942. Della stessa
scuola fu reggente proprio fino al 1942, anno in cui il suo Le Saulchoir: una scuola di teologia fu
messo all’Indice. Fu riabilitato in seguito e partecipò come perito al Concilio
Vaticano Secondo. Per un breve, ma denso resconto della vita di questo grande
studioso e teologo, si consiglia R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, 1992, pagg. 210-216.
[6] In questa
sede non si può parlare in modo dettagliato, ma soltanto accennare di altre due
figure importanti, che in qualche modo hanno contribuito al rinnovamento della
teologia cattolica: Alfred Loisy e Maurice Blondel. Per altri dettagli, si
rimanda a R. Gibellini, La teologia del
XX secolo, Queriniana, 1992, pagg. 162-173.
[7] “Rinnovata
alle fonti profonde della vita religiosa, vivificata dal suo contatto con le
correnti del pensiero contemporaneo, la teologia deve, per essere viva,
rispondere a una terza esigenza: essa deve tener conto dei bisogni delle
anime.” J. Danielou, Les orientations
presentes de la pensee religieuse, in Etudes
t. 249, avril 1946, 5-21.
[8] Associazione
teologica italiana.
[9] Associazione
italiana dei professori di storia della Chiesa.
[10]
Associazione canonistica italiana.
[11]
Associazioni professori e cultori di liturgia
[12] Per
approfondire la storia della nascita e dello sviluppo di queste associazioni,
ora raggrupate nel Coordinamento associazioni teologiche italiane (CATI), si
veda P. Ciardella, A. Montan Le scienze
teologiche in Italia a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, Elledici,
pagg. 3-10
[13] E. Busch, Karl Barth – Biografia, Queriniana,
1977.
[14] E. Busch, Karl Barth e il Concilio Vaticano II, in
Karl Barth e il Concilio Vaticano II – Ad
limina apostolorum e altri scritti, a cura di F. Ferrario e M. Vergottini,
Claudiana, 2012, pag. 7.
[15] Karl Barth,
Conciliorum
Tridentini et Vaticani I Inhaerens vestigiis, in Karl Barth e il
Concilio Vaticano II – Ad limina apostolorum e altri scritti, a cura di F.
Ferrario e M. Vergottini, Claudiana, 2012, pag. 100.
[16] In religioso ascolto della parola di Dio e
proclamandola con ferma fiducia, il santo Concilio fa sue queste parole di San
Giovanni: Annunziamo a voi la vita eterna che era presso il Padre e si
manifestò a noi […]. Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Dei Verbum, 18 Novembre 1965.
[17] Karl Barth,
Conciliorum
Tridentini et Vaticani I Inhaerens vestigiis, in Karl Barth e il
Concilio Vaticano II – Ad limina apostolorum e altri scritti, a cura di F.
Ferrario e M. Vergottini, Claudiana, 2012, pag. 106, 107.
[18] Karl Barth,
Conciliorum
Tridentini et Vaticani I Inhaerens vestigiis, in Karl Barth e il
Concilio Vaticano II – Ad limina apostolorum e altri scritti, a cura di F.
Ferrario e M. Vergottini, Claudiana, 2012.
[19] G. Conte, Vittorio Subilia: un profilo, in Il pluralismo nelle origini Cristiane –
Scritti in onore di Vittorio Subilia, ed. Claudiana, 1994.
[20] V. Subilia,
La nuova cattolicità del Cattolicesimo,
Claudiana, 1967, Pag. 185.
[21] Ibid. pag. 187
[22] “Gli aspetti umani e storici della Scrittura
non sono affatto negati o soppressi: se lo fossero verrebbe ad essere negato il
dogma centrale del Cattolicesimo, che è appunto il dogma dell’incarnazione, e
con esso quella cooperazione tra il Creatore e la creatura che trova la sua
espressione più evidente nel dogma mariano. Ma si ha l’impressione che tali
aspetti siano relegati a esercitare una funzione che fa ricordare quell’antica
eresia che sottolineava la natura divina di Cristo e vedeva la sua umanità come
semplice apparenza, oppure gli accidenti, il velo delle sacre specie
sacramentali, nel dogma della transustanziazione: la sostanza della Scrittura è
divina, Dio ne è l’autore, tutte le affermazioni in essa contenute devono
essere attribuite allo Spirito Santo e devono essere ritenute immuni da errore,
come per una sorta di immacolata concezione letteraria.” Ibid. pag.
189-190.
[23] Ibid. pag. 191
[24] E’ la stessa Tradizione che fa conoscere
alla Chiesa l’intero canone dei Libri Sacri, e in essa fa più profondamente
comprendere e rende ininterrottamente operanti le Scritture stesse.
Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum, par. 8.
[25] V. Subilia,
La nuova cattolicità del Cattolicesimo,
Claudiana, 1967, pag. 210
[26] Ibid. pag. 21.
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